Un’omicidio avvolto nel mistero da più di 70 anni.
Un’auto scura, ferma nel freddo e nella nebbia di una notte d’inverno del 1949, a pochi passi da un ponte.
Al suo interno c’è il cadavere del conducente, un tassista che è stato assassinato ferocemente.
I suoi assassini sono scomparsi come fantasmi, esattamente come si erano avvicinati alla sua auto.
16 dicembre 1949, mancano pochi giorni a Natale.
La Guerra è finita da quattro anni e l’Italia si sta rialzando faticosamente.
A Parma sono circa le ore 20:30 quando alcuni avventori, uscendo dalla trattoria vicina a Ponte Dattaro, che si trovava all’angolo tra Viale Rustici e Via Montebello, notano un’auto, un taxi Fiat 1100 di colore verde-nero parcheggiato nel punto dove fa capolinea il tram.
La città di Parma è divisa in due da un fiume omonimo ed all’epoca le due estremità erano collegate da sei ponti.
L’ultimo, quello più a sud, è Ponte Dattaro in cui ci si immette da Viale Rustici dopo una curva a destra, per arrivare in Via Langhirano.
Oggi, dopo Viale Rustici, c’è una grossa strada che porta verso la tangenziale, ma all’epoca il percorso finiva lì e si era obbligati a svoltare a sinistra, oppure a destra sul ponte.

Torniamo a quella fredda sera d’inverno.
Uno degli avventori che sta uscendo con gli amici dall’osteria, nota che all’interno del veicolo c’è un uomo al posto di guida reclinato in avanti. Credendo di trovarsi davanti ad un malore improvviso, gli uomini si avvicinano ed uno di loro, attraverso il finestrino, scuote il conducente, poi ritrae la mano e vede che è lorda di sangue.
Immediatamente tutti capiscono di trovarsi di fronte ad un delitto. Intervengono sul posto i vigili urbani che constatano però che l’uomo è ancora vivo, in pessime condizioni, ma non è morto.
Quindi, attraverso il telefono pubblico della trattoria di Ponte Dattaro, chiamano prima un’ambulanza e poi la Questura.
Il ferito viene trasportato d’urgenza alla divisione chirurgica dell’Ospedale Maggiore, perché è stato colpito alla testa con un corpo contundente. Purtroppo però, muore poco dopo l’intervento chirurgico che è stato tentato per salvargli la vita.
Sembra che le sue ultime parole dette ai soccorritori, in stato di semi incoscienza, siano state: «A Piacenza! A Fiorenzuola! Cosa fate ragazzi?».

L’uomo si chiamava Pietro Merlini, aveva 60 anni ed era un “autista di piazza”, come venivano chiamati all’epoca.
Il signor Merlini è stato ucciso con ripetuti colpi sul cranio vibrati con una grossa chiave inglese, reperto che viene rinvenuto all’interno dell’auto assieme ad altri oggetti interessanti.
A questo punto è necessario fare un appunto.
Essendo passati più di settant’anni, il fascicolo di questo caso - qualunque informazione contenga - è di pubblico dominio. Il problema è che è scomparso, forse perduto per sempre; è irreperibile nell’archivio del Tribunale di Parma, come molti altri casi, anche più recenti.
Possiamo solamente ricostruire il percorso processuale che ha avuto, ma questo lo vedremo alla fine.

Le indagini si presentano difficoltose fin da subito.
Alle 19:15 del 16 novembre, ovvero 45 minuti prima del rinvenimento di Merlini ferito a bordo del suo taxi, alcuni agenti di Pubblica Sicurezza avevano fermato ad Alseno, in provincia di Piacenza, un’auto targata Bologna, con a bordo quattro individui che poi sono risultati essere dei professionisti. Tornavano da Como ed avevano con sé 25 orologi svizzeri, qualche stecca di cioccolata e 80-90 pacchetti di sigarette. Pare stessero tornando dalla vendita di un motoscafo.
20 minuti prima di questo accertamento, due giovani noleggiavano in Piazza Cavalli a Piacenza un’auto di servizio pubblico - come si chiamavano all’epoca - era il taxi di Pietro Merlini.
Un suo collega aveva visto tutto ed ha descritto due giovani elegantemente vestiti, uno indossava un cappotto chiaro e l’altro uno scuro.
Quello con il cappotto scuro avrebbe preso posto di fianco all’autista; strano. Pare ci siano state anche delle false piste, come la prima, quella dei professionisti provenienti da Como.
Lo stesso giorno sulla via Emilia c’è stata una sparatoria tra due auto, delle Fiat 1100 dello stesso tipo di quella di Ponte Dattaro.
I giornali parlarono di una vera sparatoria tra “gangster”, come nelle pellicole americane e che questi criminali sarebbero stati gli stessi che hanno ucciso Pietro Merlini.
Secondo alcuni giornali, una delle due auto coinvolte nella sparatoria, sarebbe stata proprio quella fermata ad Alseno; tutte circostanze che saranno poi smentite dai fatti.
Ma quale fu il movente del delitto? Fu premeditato? L’arma del delitto è stata poi rinvenuta all’interno del taxi e si tratta di una grossa chiave inglese.
Pare che il figlio di Pietro Merlini non la abbia riconosciuta tra gli attrezzi che il padre teneva in auto.
L’hanno dunque portata gli assassini per utilizzarla contro la vittima?
E perché l’hanno abbandonata sulla scena del crimine?
Forse non si erano accorti che l’auto si era fermata davanti ad un’osteria.
La strada, a quell’ora di notte, era molto più buia di come appare oggi.
Può darsi che si siano resi conto che potenziali testimoni potessero vederli subito dopo il delitto ed in preda al panico siano scappati per non essere visti.

Le indagini vengono seguite personalmente dal Questore Francesco Spanò.
Un ottimo investigatore che era stato braccio destro del Prefetto Mori in Sicilia nella lotta alla Mafia e che da Questore di Parma, durante la guerra, aveva fatto sparire le liste dei cittadini di origine ebraica, in modo che non cadessero nelle mani dei tedeschi.
Spanò esclude categoricamente che i due eventi, quello della sparatoria e quello dell’omicidio di Ponte Dattaro, siano legati tra loro.
Venne accertato invece che Merlini, con a bordo i due giovani che lo uccideranno, fece sosta a Fiorenzuola, dove venne notato da un collega soprannominato “Il Moro”.
Vedendolo in compagnia di questi due giovani, probabilmente con facce poco raccomandabili, gli chiese se si fidasse a proseguire con loro verso Parma. Merlini gli rispose che sarebbe stato in grado di difendersi. Si sbagliò.
Secondo la stampa locale, circa un quarto d’ora prima che il delitto fosse scoperto, ci sarebbe un testimone che ha visto l’auto del Merlini, verso le 20:15 sbandare pericolosamente e per poco quasi non lo investiva.
Se la testimonianza è vera, allora probabilmente il conducente stava avendo un forte diverbio con quelli che diventeranno nel giro di pochi minuti i suoi assassini.
Un tentativo di rapina?
È da escludere, perché nelle tasche del Merlini vengono trovate 21.000 lire, pari a circa 500 euro odierni.
Tra i tanti misteri di questo caso, c’è un personaggio chiave di cui si sa molto poco: la vittima, il tassista Pietro Merlini.
Il quotidiano piacentino La Libertà racconta che aveva 61 anni ed era residente in città in Via Tarocco 11.
L’uomo era sposato ed era padre di due figli. In un necrologio pubblicato sulla Liberà, del 19 dicembre 1949, scopriamo i figli di Pietro Merlini si chiamavano Piero ed Emilia e che quest’ultima - all’epoca - studiava in IIa ragioneria.
Oltre alle alunne della scuola, partecipano al lutto una famiglia di amici ed un circolo di canottieri.
Nel suo atto di nascita troviamo solamente che è nato il 15 gennaio 1888 e cresciuto senza padre a Castelnuovo Fogliani, frazione di Alseno in provincia di Piacenza, da certa Emilia Ziliani, vedova di Pietro Merlini.
Nessuna trascrizione, né il matrimonio, né la morte.
Sicuramente gli inquirenti hanno indagato anche sui suoi trascorsi, ma cosa fosse emerso non è dato saperlo.

Il Questore Francesco Spanò indagando personalmente sul caso si fa un’idea dei fatti.
Spanò collega l’omicidio di Merlini ad un altro fatto di sangue del Dopoguerra, che aveva riempito le pagine di cronaca nera dei giornali: il delitto dell’Alabarda. Il 29 marzo 1947 viene ucciso il conte Giovanni Pellegrini Malfatti nella sua villa piena di armi antiche a Desenzano sul Garda.
La vittima venne ritrovata nel giardino, dopo essere sceso per verificare la presenza di possibili intrusi.
Venne colpito al volto con un colpo di pistola e poi al cranio con un corpo contundente.
I parenti, per soccorrerlo, dovettero forzare una porta chiusa della villa con un’alabarda, per prestare soccorso al ferito agonizzante.
Da questo gesto, il fatto venne chiamato nelle cronache dell’epoca “Il delitto dell’alabarda”.
Per questo omicidio venne accusato il cognato del conte, certo Alfredo Faotto che venne condannato all’ergastolo.
Sembra che in seguito ad una lettera anonima giunta a Parma, il Questore Spanò abbia raccolto interessantissimi indizi che collegavano l’uccisione di Merlini proprio al delitto dell’Alabarda.
L’anonimo aveva allegato un’altra lettera scritta da un certo Pietro Bissi ed indirizzata ad un certo Renato Bonfatti. Il Bissi affermava di aver eliminato il Merlini, in quanto li aveva accompagnati con il suo taxi a Desenzano e che avrebbe potuto ricattarli perché li aveva riconosciuti come gli assassini del conte Giovanni Pellegrini Malfatti, minacciando di denunciarli. Francesco Spanò morì improvvisamente prima che le indagini si sviluppassero ulteriormente. La data di morte di Francesco Spanò sulla pagina Wikipedia è decisamente sbagliata, dato che sarebbe avvenuta due mesi prima del delitto di Ponte Dattaro.

Come abbiamo detto all’inizio, il fascicolo con gli atti è probabilmente perduto per sempre.
Dal registro delle notizie di reato della Procura possiamo però ricostruire i passaggi processuali di questo fascicolo: il 25 gennaio 1950 l’inchiesta arriva al Giudice Istruttore per l’Istruttoria Formale, il 4 luglio 1950 il fascicolo torna al PM che deve svolgere ulteriori indagini che si affiancano a quelle svolte dalla Polizia il 25 ottobre 1950.
Il 9 ottobre 1954 la Polizia comunica il risultato delle indagini al PM e il 19 gennaio 1955 questi lo trasmette al Giudice Istruttore che lo gira alla Corte D’Appello di Bologna per la probabile archiviazione.
L’omicidio di Ponte Dattaro rimarrà insoluto ed il suo collegamento al “Delitto dell’alabarda” non verrà mai provato.
Gian Guido Zurli